L’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA), insieme all’European Medicines Agency, approva il primo farmaco al mondo per la cura dell’epatite Delta.
L’epatite Delta è una malattia rara, associata al virus dell’epatite Delta (HDV), che colpisce il fegato e si presenta insieme al virus dell’epatite B (HBV): l’HDV ha bisogno del sostengo dell’HBV per provocare l’infezione autonomamente e per moltiplicarsi nelle cellule epatiche. L’infezione avviene tramite contatto con sangue (trasfusioni) e/o fluidi corporei (rapporti sessuali) di un individuo già infetto. I sintomi dell’epatite D possono essere del tutto asintomatici, oppure in modo acuto se si presentano entro 3 mesi dal contagio, insieme a dolore addominale, prurito, dolore ai muscoli e articolazioni, debolezza fisica (astenia) e ittero (la pelle e la parte bianca dell’occhio diventano giallastri, urine scure e feci chiare).
La ricerca internazionale, pubblicata sul New England Journal, dimostra l’efficacia del nuovo farmaco chiamato Bulevirtide: i risultati ottenuti mostrano che, a due anni di distanza dall’inizio della terapia, con l’iniezione del farmaco sottocute alla dose di 2 milligrammi una volta al giorno, la carica virale si riduce drasticamente e anche le transaminasi, e gli enzimi epatici (indicativi del funzionamento del fegato) tornano normali. “L’epatite Delta è la più aggressiva e finora era anche l’unica senza una terapia”, spiega Pietro Lampertico, direttore dell’Unità di Gastroenterologia ed Epatologia del Policlinico di Milano e coautore dell’indagine. “La bulevirtide è il primo farmaco per cui sia stata dimostrata l’efficacia in monoterapia, senza l’uso dell’interferone”.
Il farmaco, quindi, blocca la proteina sulle cellule epatiche, che consentono al virus di entrare, fermando così la replicazione virale, ripristinando così il corretto funzionamento degli enzimi epatici. Il 45% dei pazienti ha beneficiato del trattamento del farmaco, e nel 12% di questi risulta che l’epatite D è “scomparsa”: non eradica completamente il virus, come accade con il trattamento per l’epatite C, ma lo sopprime e aiuta a evitare il trapianto di fegato, garantendo così una miglior qualità di vita dei pazienti e riducendo i costi dell’operazione.
Lampertico ha inoltre precisato che la terapia col Bulevirtide si è dimostrata efficace in tre tipologie principali di casi: gli italiani over-43, che hanno contratto il virus dell’epatite B prima che diventasse obbligatorio il vaccino nel 1991, gli immigrati dall’Est Europa o altri Paesi, che vivono in Italia da tempo ma non sono vaccinati e spesso hanno fra i 30 e i 40 anni, e i nuovi migranti in arrivo da Paesi dove l’epatite B e la Delta sono frequenti.